Silvano Girotto, il frate che tradì la rivoluzione (o forse la salvò).
- oposservatoriopoli
- 21 giu
- Tempo di lettura: 4 min
L’onestà intellettuale di chi ha imbracciato davvero le armi.
Tra le molte ombre e luci degli anni di piombo, ce n’è una che non ha mai cessato di suscitare disagio, ambiguità e interrogativi irrisolti: Silvano Girotto, passato alla storia - e alla cronaca giudiziaria - come “Frate Mitra”.
Un personaggio unico nel panorama italiano: ex frate, ex rivoluzionario latinoamericano, infiltrato nei vertici delle Brigate Rosse, responsabile del loro primo grande smantellamento.
Ma chi era davvero questo uomo che riuscì a confondere santi e terroristi, servizi segreti e rivoluzionari?
Una vocazione interrotta, nato nel 1941 a Farra di Soligo (Treviso), Silvano Girotto abbracciò giovanissimo la vita religiosa entrando nell’Ordine dei Frati Minori Conventuali.
Ma già negli anni Sessanta, mentre il mondo esplodeva di contraddizioni tra guerra in Vietnam e rivoluzioni anticoloniali, il giovane frate sviluppava un senso sempre più radicale della missione evangelica, che andava ben oltre la contemplazione.
La povertà, l’ingiustizia e l’oppressione, viste in America Latina, dove operò come missionario, lo spinsero verso una forma estrema di solidarietà, quella armata.
In Bolivia, sulle orme del Che, si unì a una cellula guevarista.
Non fu un’adesione teorica, visse nella selva, imbracciò il fucile, partecipò alla guerriglia.
La leggenda racconta di un uomo che, con la croce nel cuore e il mitra in mano, si convinse che la liberazione dei poveri passasse dalla lotta contro l’imperialismo e l’oppressione.
Ma l’esperienza rivoluzionaria finì bruscamente: arresto, torture, carcere, espulsione.
Tornò in Italia con le ossa rotte ma non lo spirito.
Il rientro e il cortocircuito, il suo ritorno coincise con un’Italia che stava esplodendo in senso opposto ma speculare.
Le Brigate Rosse crescevano nei capannoni, nelle università e nelle frustrazioni della classe operaia, in una miscela esplosiva di gramscismo mal digerito e leninismo urbano.
L’ex frate sembrava il profilo perfetto per entrarvi: aveva carisma, storia rivoluzionaria, e soprattutto - agli occhi degli apparati dello Stato - una possibilità: infiltrarsi.
Nel 1974, su segnalazione dei servizi, fu arruolato in un’operazione speciale. Entrò in contatto con l’ala militare delle BR, guadagnò la fiducia dei fondatori Renato Curcio e Alberto Franceschini, e li attirò in un incontro “sicuro” in una birreria torinese.
L’8 settembre 1974, grazie alla sua segnalazione, i due furono arrestati dai Carabinieri del generale Dalla Chiesa.
Era il primo colpo durissimo inferto alle Brigate Rosse, fino ad allora cresciute in clandestinità quasi indisturbata.
Eroe o manipolatore?
Il dibattito sulla figura di Silvano Girotto è stato da subito polarizzato: salvatore dello Stato o traditore della rivoluzione?
Per alcuni era l’uomo che aveva evitato che l’Italia cadesse in un abisso di guerra civile, per altri un infiltrato che aveva venduto la causa per convenienza, oppure per vendetta contro una rivoluzione che lo aveva abbandonato.
Girotto, dal canto suo, non cercò mai gloria.
Dopo l’operazione, sparì.
Fece il muratore in Francia sotto falso nome.
Rifiutò ogni scorta, ogni privilegio, persino la protezione offerta dai servizi.
La sua scelta era compiuta: non più la guerriglia, ma la rinuncia.
Disse in un’intervista: “Se fosse stato per me, avrei voluto solo continuare a vivere come un frate. Ma se ti trovi davanti a un bivio tra l’inganno e la verità, devi scegliere. Anche se il prezzo è alto.”
Morì nel 2021, in silenzio.
Nessun onore ufficiale, nessun processo di beatificazione laica.
Solo qualche riga nei necrologi e un ricordo frammentario.
Girotto e il paradosso della rivoluzione armata.
Il suo caso rappresenta l’incarnazione del dilemma più profondo del Novecento italiano: può la violenza essere un mezzo di liberazione?
Le Brigate Rosse risposero sì.
Ma la realtà - storica, politica e umana - ha risposto con un no amaro, costellato di morti, divisioni e regressione sociale.
Girotto, paradossalmente, aveva creduto in una rivoluzione autentica in Bolivia.
Ma riconobbe che in Italia quella lotta era deviata, autoritaria, fondata sul culto dell’illegalità e incapace di costruire consenso popolare.
Non era rivoluzione, ma vittimismo ideologico armato, sostenuto da una minoranza autoreferenziale che parlava a nome di un popolo che non l’aveva mai delegata.
Il rischio eterno della violenza come ideologia.
La parabola di Frate Mitra si inserisce in un contesto globale dove la lotta armata, dal Medio Oriente all’America Latina, ha spesso fallito nel produrre progresso reale.
Le armi, nelle mani sbagliate, non liberano: creano nuove prigioni, nuove ingiustizie, nuovi apparati repressivi.
L’Italia degli anni Settanta non fu il Vietnam, e chi tentò di “importare” la rivoluzione fece un’operazione culturale scollata dal contesto.
Silvano Girotto lo comprese prima di molti: la violenza in nome di un'ideologia - anche se “giusta” - può produrre solo autoritarismo.
E spesso, senza accorgersene, si finisce per servire proprio quei poteri che si diceva di voler combattere.
Le BR furono usate, infiltrate, persino manipolate da apparati che avevano tutto l’interesse a mantenere alta la tensione e giustificare restrizioni democratiche.
Chi oggi flirta con la mitologia della lotta armata dovrebbe rileggere la storia con occhi meno retorici, la giustizia non nasce dai kalashnikov, ma dal consenso, dalla cultura, dalla partecipazione.
L’ora silenziosa di Frate Mitra, un racconto (quasi) inedito.
C’è un episodio, mai riportato nei verbali né nei racconti ufficiali, che emerge solo grazie al ricordo sommesso di un vecchio carabiniere in pensione, presente all’arresto di Curcio e Franceschini.
Era Torino, settembre 1974.
La birreria era ancora mezza vuota, e Girotto - seduto a un tavolo con i due brigatisti - aveva appena ordinato da bere, una birra chiara, senza schiuma. Nessuno sapeva se l’operazione sarebbe riuscita.
Quando i militari irruppero, racconta il testimone, Girotto non si mosse.
Non distolse nemmeno lo sguardo dal bicchiere.
Aspettò che tutto finisse, poi si alzò in silenzio, attraversò la sala come un'ombra e si fermò davanti a una vetrina.
Guardava fuori, non per paura, ma per pudore.
Uno degli ufficiali si avvicinò e gli sussurrò: “È finita, frate. Hai fatto la cosa giusta.”
Girotto non rispose subito.
Poi, voltandosi appena, disse parole che nessuno annotò, ma che il carabiniere ricordò per sempre: “Non so se è giusta. So solo che non voglio più imbracciare né mitra né incenso per mentire a qualcuno.”
Poi uscì.
Senza scorta, senza onori, senza un grazie.
Quel giorno non salvò lo Stato, né sé stesso.
Scelse solo di non essere più complice...
Per concludere, una massima: “Noi comunisti dobbiamo dire con assoluta chiarezza che chi sceglie la via della lotta armata si pone fuori dal movimento operaio e democratico.” Enrico Berlinguer, segretario del PCI
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