top of page
OP Osservatorio Politico

Non è vero che le indagini in Italia sono solo un atto dovuto.

  • oposservatoriopoli
  • 21 giu
  • Tempo di lettura: 6 min

Un luogo comune da sfatare: l’apertura di un fascicolo non è una formalità, ma un atto giudiziario fondato su elementi concreti, non compilare un modulo.


Ogni volta che la magistratura iscrive qualcuno nel registro degli indagati, la risposta pubblica - e spesso mediatica - è sempre la stessa: “È solo un atto dovuto”.

Ma dietro questa formula rassicurante si cela una distorsione del diritto.

Le indagini preliminari non sono un automatismo burocratico, bensì un atto processuale previsto e disciplinato dal Codice di procedura penale (c.p.p.).

“È solo un atto dovuto”.

Ma è davvero così?

La risposta, nella maggior parte dei casi, è no.

Dire che un’indagine è “un atto dovuto” implica che l’iscrizione nel registro degli indagati sia una procedura automatica, svuotata di significato, quasi una tutela nei confronti dell’indagato.

In realtà, in Italia l’iscrizione nel registro delle notizie di reato presuppone l’esistenza di un fatto che la Procura ritiene meritevole di approfondimento giudiziario.

Verifichiamo la funzione della notizia di reato.

L’articolo 335 del Codice di procedura penale prevede che, quando perviene una notizia di reato, il pubblico ministero debba iscriverla in un apposito registro, indicando chi risulta indagato, se è già possibile identificarlo.

Ma non tutte le notizie vengono automaticamente iscritte: il PM valuta la consistenza degli elementi e solo allora procede.

Chi viene iscritto nel registro degli indagati non lo è per semplice cautela.

Lo è perché vi sono indizi sufficienti per ritenere che quella persona possa aver avuto un ruolo in un possibile reato.

È un atto garantista, sì, perché consente all’indagato di difendersi, ma non è una formalità “svuotata di valore”.

Quindi “atto dovuto” o narrazione difensiva?

Spesso, la definizione di “atto dovuto” è una narrazione che nasce negli uffici stampa, non nelle aule di tribunale.

È un modo per disinnescare l’impatto mediatico dell’indagine e spostare l’attenzione dal fatto oggetto dell’inchiesta al presunto automatismo dell’iscrizione.

Si tratta però di una semplificazione fuorviante: se una Procura apre un fascicolo a carico di qualcuno, ha ritenuto che ci sia una base oggettiva per procedere.

Non agisce per dovere astratto, ma perché ritiene che ci sia qualcosa da chiarire, e quel chiarimento passa anche attraverso la posizione dell’indagato.

Abbiamo una cultura giuridica da recuperare in Italia.

Confondere la garanzia con l’irrilevanza è pericoloso.

Rende più opaca la distinzione tra responsabilità politica, responsabilità penale e responsabilità etica.

In un Paese dove la fiducia nella giustizia è già molto fragile, minimizzare sistematicamente ogni indagine come “atto dovuto” contribuisce a disinformare l’opinione pubblica e a depotenziare la funzione della magistratura.

Non si tratta di colpevolizzare gli indagati a prescindere.

Si tratta di riconoscere il valore e il peso delle indagini come strumenti democratici di accertamento della verità, che meritano rispetto, chiarezza e trasparenza.

Anche da parte di chi le subisce.

Non tutte le indagini portano a un rinvio a giudizio, e non tutti gli indagati sono colpevoli.

Ma ogni indagine è un fatto serio.

Trattarla come un automatismo è il modo più rapido per svuotare la giustizia del suo significato.

Cosa prevede il codice?

L’art. 330 c.p.p. dispone che la notizia di reato può essere acquisita dal pubblico ministero d'ufficio o su denuncia, querela, referto o altro atto.

Una volta ricevuta, secondo l’art. 335 c.p.p., il PM ha l’obbligo di iscrivere nel registro delle notizie di reato non solo il fatto, ma anche il nome della persona sottoposta alle indagini, qualora sia noto.

Ma questo passaggio non è affatto una formalità: l’iscrizione non è automatica, richiede che il PM abbia raccolto elementi minimi che giustifichino l’apertura di un’indagine.

Come ha chiarito la Cassazione penale, Sezioni Unite, nella sentenza n. 11628/2012, “l’iscrizione nel registro degli indagati è atto dovuto solo in presenza di elementi idonei a configurare una notizia di reato dotata di concretezza, precisione e attualità”.

In altre parole: non basta un sospetto generico.

Dev’esserci una notizia di reato “circostanziata”, che delinei un fatto-reato e la sua possibile attribuzione soggettiva.

Garanzia, sì.

Ma non banalizzazione.

È vero che l’iscrizione nel registro degli indagati serve anche a garantire i diritti difensivi dell’interessato, come previsto dagli articoli 369 e 369-bis c.p.p. (informazione di garanzia e facoltà di farsi assistere da un difensore).

Ma il suo scopo non è “tutelare” il cittadino come atto neutro, bensì permettere l’accertamento di una possibile responsabilità penale.

Lo ha ribadito anche la Corte costituzionale, con sentenza n. 282/2010, specificando che “la garanzia difensiva postula un’accusa, sia pure ancora in fase embrionale”.

Dunque, non si tratta mai di un “atto svincolato da un contenuto sostanziale”.

Quando si parla davvero di “atto dovuto”?

Esiste una sola accezione corretta della formula “atto dovuto”: quando l’iscrizione è imposta dalla legge per consentire l’esercizio dei diritti di difesa, come nel caso in cui debba essere compiuto un atto garantito (es. un interrogatorio o una perquisizione).

In questi casi, il PM è tenuto a formalizzare l’iscrizione per poter notificare l’informazione di garanzia.

Ma anche in questo contesto, si tratta di una conseguenza di un’indagine già avviata su elementi concreti, non di un automatismo burocratico.

Come ricorda la giurisprudenza costante (Cass. pen., sez. VI, sent. n. 44987/2017), “l'iscrizione nel registro degli indagati è doverosa per il PM al fine di compiere atti a contenuto garantito, ma presuppone pur sempre una notizia di reato concreta e individuabile”.

In conclusione, la narrazione per cui “tutti sono indagati prima o poi” o “l’indagine è un atto dovuto” banalizza l’attività giudiziaria, indebolisce la fiducia nelle istituzioni e mistifica il significato dell’azione penale (art. 112 Cost., obbligatorietà).

Non si tratta di colpevolizzare gli indagati, ma di riconoscere che l’iscrizione comporta sempre un vaglio giuridico su fatti potenzialmente rilevanti.

In un Paese di diritto, le parole hanno peso.

E anche le indagini.

Trattarle come formalità vuol dire svuotarle di senso e di responsabilità, tanto per chi le conduce quanto per chi le subisce.

E poi esce un articolo su TarantoToday.

Il titolo e il contenuto evidenziano un tema molto delicato e attuale: l’abuso della formula “atto dovuto” per giustificare iscrizioni nel registro degli indagati che invece hanno implicazioni giuridiche e morali serie.

Vediamo di chiarire cosa significa davvero, alla luce di quanto affermano i due magistrati citati nell’articolo.

Cosa ci racconta in realtà l'articolo?

Due magistrati in pensione, ex procuratori a Taranto e Brindisi, criticano fortemente l’iscrizione nel registro degli indagati di due poliziotti che hanno fermato (uccidendolo) un uomo armato, dopo l’omicidio di un brigadiere.

La Procura ha iscritto i poliziotti nel registro, e qualcuno ha parlato di “atto dovuto”.

La loro replica è netta:

“Non esiste l’atto dovuto come esimente dell’adempimento di un dovere”.

Questa frase ha un significato molto preciso in diritto: non si può mascherare dietro l'etichetta di "atto dovuto" una scelta che ha conseguenze giuridiche e morali - come l’iscrizione per omicidio di pubblici ufficiali che hanno agito in contesto di legittima difesa o uso legittimo delle armi.

Analizziamo il punto di diritto.

L’iscrizione nel registro degli indagati (art. 335 c.p.p.) è un atto giuridicamente rilevante, non una formalità. Richiede una notizia di reato concreta, attuale e plausibile.

Se un pubblico ufficiale, come un poliziotto, agisce in adempimento di un dovere o nell’ambito dell’uso legittimo delle armi (artt. 51 e 53 c.p.), non si può automaticamente ipotizzare un reato, a meno che vi siano elementi di abuso, eccesso o dolo.

Gli ex magistrati stanno dicendo: non basta che ci sia stata una morte per iscrivere nel registro chi l’ha causata, se agiva in chiara cornice di legalità e necessità.

Quindi cosa significa “non esiste l’atto dovuto”?

Significa che non esiste nel nostro ordinamento una norma che impone di iscrivere chiunque in caso di evento grave (come una morte) solo per “tutela formale”.

Esiste infatti l’obbligo di iscrivere solo se vi è una notizia di reato, non un fatto qualunque.

Quindi non ci si può nascondere dietro “l’atto dovuto” se mancano i presupposti concreti di reato.

E nel caso specifico?

Nel caso specifico, due poliziotti fermano un killer armato, che ha appena ucciso un brigadiere, l’eroico Carlo Legrottaglie.

Se lo fanno nell’immediatezza del pericolo, usando forza proporzionata e necessaria, è chiaro che la loro azione potrebbe rientrare negli articoli 51, 52 o 53 del codice penale (dovere, legittima difesa, uso legittimo delle armi).

Se non ci sono elementi per ritenere che abbiano ecceduto nei mezzi o agito in modo arbitrario, non dovrebbero essere indagati - o almeno non con l’etichetta di “atto dovuto”.

Questo è il senso della polemica.

Il titolo dell’articolo di TarantoToday conferma esattamente quanto spiegato in precedenza, l’atto “dovuto” non è una categoria giuridica neutra né una scusa automatica per procedere.

L’iscrizione è un atto serio, che richiede una valutazione precisa.

Se si iscrive qualcuno solo “per cautela” si rischia di calpestare non solo i diritti dell’indagato, ma anche il significato dell’azione penale.



fidi@s1970 - Massimiliano De Cristofaro

Member 20643 * GNS Press Association

Image free: peggychoucair

ree

 
 
 

Commenti


OP Osservatorio Politico
GNS PRESS

Iscriviti alla nostra newsletter

Data e ora
Giorno
Mese
Anno
Orario
OreMinuti
Prodotto
Donazione
10 €
20 €
30 €

Tutte le nostre aree web, sito, blog, social "OP Osservatore Politico" non rappresentano una testata giornalistica in quanto vengono aggiornati senza alcuna periodicità.

Non possono, pertanto, considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n.62 del 2001.

  • Blogger
  • Facebook
  • Instagram
  • Youtube

IL MOTTO SCELTO PER OP (Mino Pecorelli)

"Comment is free, but facts are sacred. Comment also is justly subject to a selfimposed restraint. It is well to be frank. It is even better to be fair. This is an ideal."

È una frase di C.P. Scott, direttore del Guardian per 57 anni, dal 1873 al 1930.

Copyright

© 2035 by ifyou&communicationbrother's

Powered and secured by Old&Fast Accurate Affair Group

GDPR Privacy
GNS PRESS
bottom of page