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Dovere ignorato, diritto tradito: Almasri e il paradosso italiano.

  • oposservatoriopoli
  • 11 lug
  • Tempo di lettura: 3 min

Fermato in Italia, espulso in Libia: cosa non ha funzionato nella gestione di un cittadino ricercato per crimini contro l’umanità


Nel gennaio 2025, Osama Almasri, cittadino libico ricercato dalla Corte Penale Internazionale, viene fermato in Italia.

Su di lui pende un mandato d’arresto internazionale con l’accusa di crimini di guerra, tra cui tortura, omicidio e violenze sessuali commessi all’interno delle carceri di Tripoli.

La sua permanenza sul territorio italiano dura pochi giorni.

Dopo che la Corte d’Appello di Roma non convalida il fermo, il titolare del Viminale, Matteo Piantedosi, firma un decreto di espulsione per motivi di sicurezza nazionale.

Almasri viene rimpatriato in Libia, dove risulta attualmente in libertà.

A giustificare pubblicamente la scelta fu lo stesso Piantedosi, che dichiarò:

“A seguito della mancata convalida dell'arresto ho adottato un provvedimento di espulsione per motivi di sicurezza dello Stato, notificato al momento della sua scarcerazione.”

La vicenda sembrava chiusa, almeno fino alla diffusione di nuovi elementi che ne hanno riacceso l’attenzione.

Alcune email interne al Ministero della Giustizia, recentemente trapelate, mostrano come l’arresto fosse noto alle autorità già nella notte tra sabato 18 e domenica 19 gennaio. Un’informazione che contraddice la ricostruzione ufficiale e solleva interrogativi sul mancato coordinamento con la giustizia internazionale, come previsto dallo Statuto di Roma, che l’Italia ha ratificato.

Il guardasigilli Carlo Nordio, intervenuto in Parlamento, aveva attribuito la mancata convalida del fermo a una serie di criticità procedurali: l’arrivo tardivo e informale delle comunicazioni, il fatto che il mandato fosse in lingua inglese senza una traduzione ufficiale, oltre ad avere rivendicato la discrezionalità del proprio ruolo, sostenendo che in presenza di atti poco chiari fosse legittimo avviare verifiche preliminari prima di procedere.

Nemmeno la pubblicazione delle comunicazioni interne ha modificato la linea difensiva. Nordio ha ribadito che “gli atti dimostrano che il Ministero si è mosso secondo legge” e, durante un Question Time al Senato, ha aggiunto: “Sul caso Almasri nessuna fuga. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Quanto detto in Parlamento lo confermerei oggi. Il chiacchiericcio riportato dalla stampa è completamente infondato.”

Ha poi sottolineato che eventuali sviluppi saranno chiariti, se necessario, in sede giudiziaria, anche in relazione alla diffusione di documenti riservati.

Nel frattempo, la senatrice e avvocata Giulia Bongiorno ha annunciato l’intenzione di procedere legalmente contro chi ha reso pubblici i file interni, parlando di violazione del segreto d’ufficio.

L’attenzione, così, si sposta dal merito della vicenda alle modalità con cui le informazioni sono emerse.

Il caso Almasri sembra inserirsi in una linea politica che, da anni, vede nella Libia un partner strategico – quanto problematico – per il contenimento dei flussi migratori.

Un interlocutore instabile, dove gruppi armati controllano vaste aree del territorio e sono accusati di gravi abusi sistematici.

Ad acuire le tensioni è intervenuta anche la decisione, da parte di Tripoli, di dichiarare il ministro Piantedosi persona non grata.

Un gesto che rivela la fragilità dei rapporti tra i due Paesi e mette in luce le crepe nella strategia italiana sulla sponda sud del Mediterraneo.

Alla luce di quanto emerso, non si può liquidare il caso come un semplice incidente amministrativo.

Il mancato raccordo con la Corte Penale Internazionale, la rapidità con cui è stata eseguita l’espulsione, la scarsa trasparenza nei rapporti istituzionali e il tentativo di delegittimare chi ha sollevato il problema delineano un quadro opaco che merita un’attenta riflessione.

In un Paese autorevole, una simile gestione avrebbe probabilmente condotto alle dimissioni del responsabile politico.

Ma qui il nodo è più profondo: riguarda il rapporto tra verità istituzionale e responsabilità democratica.Può un ministro che ha fornito versioni contraddittorie al Parlamento continuare a detenere la credibilità necessaria per guidare una riforma del sistema giudiziario?

E soprattutto: fino a che punto siamo disposti ad accettare che la menzogna politica diventi prassi ordinaria?

C’è qualcosa di più grave di un crimine: coprire chi lo ha commesso, piegare le istituzioni per proteggerlo, mentire ai cittadini per sottrarsi ai propri doveri.

Intanto, la posizione del ministro della Giustizia potrebbe avere anche risvolti giuridici: qualora le discrepanze evidenziate configurassero il reato di omissione di atti d’ufficio, non si può escludere l’apertura di un procedimento formale a suo carico.


Articolo a cura di Mara Cozzoli

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