Da Gianni Alemanno all’amnistia!
- oposservatoriopoli
- 7 lug
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Detenuto nel carcere di Rebibbia dallo scorso 31 dicembre 2024, Gianni Alemanno - ex sindaco di Roma e già ministro - firma una drammatica missiva indirizzata alle istituzioni e resa pubblica il 29 giugno 2025.
Dalle sue pagine emerge la denuncia di un carcere trasformato in “cella-forno”: celle sovraffollate, temperature insopportabili, mancanza di assistenza e un tasso di suicidi in preoccupante crescita. “La politica dorme (con l’aria condizionata) mentre qui si muore”, scrive, evocando un “inferno” quotidiano che, secondo lui, richiede un intervento urgente per restituire dignità e umanità al sistema penitenziario italiano.
“Mentre le temperature superano i 45 gradi, i ventilatori sono un lusso per pochi, le celle sono camere a gas, le docce funzionano a intermittenza e l'acqua potabile scarseggia, ogni estate si ripete lo stesso copione: suicidi, proteste, appelli, e poi il silenzio.”
Comincia così la lettera aperta indirizzata a Ignazio La Russa e Lorenzo Fontana, presidenti di Senato e Camera, firmata da due persone con esperienze molto diverse - una contraddistinta da un pluridecennale impegno politico e istituzionale, l'altra da una lunghissima esperienza carceraria vissuta studiando Giurisprudenza e lavorando come "scrivano" al servizio delle altre persone detenute - ma accomunate dallo stesso impegno per rendere pubbliche le drammatiche condizioni in cui si vive negli istituti penitenziari italiani”.
Cioè Gianni Alemanno, già ministro ed ex sindaco di Roma, e Fabio Falbo, detenuto da 20 anni durante i quali si è laureato in giurisprudenza, che hanno scritto una lettera di denuncia sulle condizioni delle carceri italiane, in particolare durante l'estate: “Drammatiche condizioni che stanno esplodendo - si legge -, nel cuore dell'estate italiana, mentre milioni di cittadini cercano refrigerio tra ventilatori e condizionatori, c'è un'Italia che brucia in silenzio, è quella delle carceri, dove oltre 62.000 persone vivono stipate in celle pensate per meno di 47.000, dove il caldo non è solo un disagio, ma una pena aggiuntiva, dove la dignità umana si scioglie, giorno dopo giorno, tra muri scrostati, letti a castello e finestre sigillate da pannelli di plexiglass.”
Nel corso del 2024, sono stati ben 71 i detenuti che hanno deciso di togliersi la vita; nei primi sei mesi del 2025, la tragedia si è ripetuta già 38 volte - un suicidio ogni cinque giorni.
Questi numeri gridano vendetta, ma cadono nel silenzio: chi muore in carcere, spesso, muore due volte – prima nella cella e poi nell’indifferenza collettiva.
Ancora più grave, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti e, se non si interverrà con urgenza, il nostro Paese - definito “patria del diritto” - potrebbe subire una nuova, umiliante condanna.
In Italia, dietro le sbarre - sia in custodia cautelare, sia dopo una condanna definitiva - non finiscono solo i “colpevoli”; spesso ci vanno gli “scomodi” oppure coloro che devono tappare buchi investigativi.
Non sempre entra in carcere “il colpevole”, ma talvolta semplicemente “un colpevole”.
Questo vale anche per chi potrebbe essere innocente, magari lì dentro solo perché è più facile o strategicamente utile, non perché abbia davvero commesso un reato concreto ...
I dati confermano una verità sconcertante: in Italia gli errori giudiziari non sono casi isolati, ma un’enorme piaga del sistema penale.
Tra il 1991 e il 2024, oltre 31.900 persone sono state vittime di ingiusta detenzione o condanne errate, con una media di quasi 940 casi l’anno.
Nel solo 2024, si contano 552 ingiuste detenzioni e un esborso di circa 27 milioni di euro in ristori.
Complessivamente, lo Stato ha speso quasi un miliardo di euro per risarcimenti e indennizzi.
Dietro questi numeri non ci sono solo bilanci gravati: ci sono vite spezzate, reputazioni distrutte e famiglie devastate. Beniamino Zuncheddu, condannato all’ergastolo per una strage mai commessa e liberato dopo 33 anni, ne è tragica dimostrazione.
Tante persone, invece, rimangono nell’ombra, vissuti cancellati, costretti a rimettersi in piedi con l’esclusivo ricorso ai risarcimenti economici.
È evidente: tutelare l’indipendenza della magistratura non può diventare sinonimo di irresponsabilità.
Servono riforme strutturali: più formazione, potenziamento dell’accountability, trasparenza nei processi e strumenti efficaci per revisione e prevenzione. Non si tratta solo di proteggere i cittadini innocenti, ma di restituire credibilità all’intero sistema giudiziario. Ogni errore evitabile è un passo verso una giustizia più umana e sana - perché lo Stato, alla fine, non spende solo denaro: spende la fiducia dei suoi cittadini.
Meri errori oppure orrori giudiziari?
Ai posteri, l’ardua sentenza!
Ci domandiamo e domandiamo a chi di Dovere: non è arrivato il momento di concedere una cazzo di amnistia?
A cura di Massimiliano De Cristofaro










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