Carceri, misura della nostra civiltà.
- oposservatoriopoli
- 7 lug
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Dalla denuncia di Mattarella all’urgenza di una riforma culturale: il carcere come specchio morale della Repubblica.
In un tempo che pare aver smarrito il senso del limite, la condizione carceraria italiana riaffiora ciclicamente come uno dei nodi irrisolti della nostra democrazia.
Non si tratta soltanto di una crisi gestionale, strutturale o normativa: è, prima di tutto, una questione morale.
Una lacerazione profonda nel tessuto dello Stato di diritto.
Sergio Mattarella, con la consueta compostezza e sobrietà istituzionale, ha recentemente riportato al centro del dibattito pubblico il significato autentico della pena. Lo ha fatto con parole nette: «Non si può ignorare la condizione disumana in cui versano molte strutture penitenziarie. Lo Stato non può voltarsi dall’altra parte. La dignità della persona detenuta è il fondamento stesso della nostra civiltà».
Il carcere, ha ammonito quest’ultimo, non può ridursi a luogo di disumanizzazione.
Non può trasformarsi in zona franca dove si sedimentano colpe collettive e si dissimula la rinuncia alla responsabilità politica.
Ogni suicidio dietro le sbarre non è solo una tragedia individuale, ma il sintomo di un cedimento etico. Quando un recluso si toglie la vita, ci costringe a confrontarci con l’abisso che abbiamo lasciato aperto: quello di un sistema che punisce senza ascoltare, che reclude senza prendersi cura, che giudica senza accompagnare. Come ha detto lo stesso Capo dello Stato :«Ogni suicidio in carcere è una sconfitta per la Repubblica. È un fallimento che ci riguarda tutti».
E ci costringe, altresì, a interrogarci sul senso stesso della giustizia che amministriamo: può dirsi ancora giustizia, se abdica alla speranza del riscatto?
Non si invoca pietismo, ma rigore intellettuale.
Beccaria – la cui lezione continua a interrogare la coscienza civile – concepiva la pena come strumento razionale, proporzionato, mai vendicativo.
Oggi, quel paradigma si infrange contro celle sovraffollate, corpi invisibili, storie spezzate, diritti ridotti a simulacri.
Una società democratica si giudica anche – e forse soprattutto – da come tratta chi ha infranto le sue regole.
Non in nome dell’assoluzione, ma per coerenza.
Non per compiacenza, ma per una concezione dell’umano che non si estingue con l’errore. La pena che dimentica la sua funzione rieducativa si tramuta in annientamento.
E con essa, si dissolve anche un frammento della nostra coscienza collettiva.
Mattarella ci esorta a non cedere all’indifferenza.
Un appello che non riguarda soltanto la classe politica, ma ciascuno di noi. Perché ciò che accade dietro le mura delle carceri non è affare separato dalla società: è il riflesso di ciò che siamo disposti a tollerare.
È la soglia più fragile del nostro vivere comune – e proprio per questo, la più rivelatrice.
Forse non salveremo tutte le vite.
Ma possiamo scegliere, come comunità, di non condannarle più al silenzio.
Articolo a cura di Mara Cozzoli










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