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“REPORT”, RANUCCI, LA CRONACA D'ASSALTO...E VANNACCI: scoperchiato il vaso di Pandora...

  • oposservatoriopoli
  • 2 giorni fa
  • Tempo di lettura: 7 min

Non solo questa volta il generale Roberto Vannacci desidera avere l'ultima parola sul servizio a lui dedicato dalla trasmissione televisiva Report,  trasmissione di Rai 3 condotta da Sigfrido Ranucci , al quale rinnoviamo tutta la nostra solidarietà per il vile attentato da poco subito.

 

L’aggressione, l’attentato al libero giornalismo è un atto vile, contro la libertà di espressione e di cronaca.


Se si vieta,  o si tenta di impedire, la libertà di espressione e di critica, anche estrema, viene meno il diritto della libertà.

 

E noi di OP lo sappiamo bene …


Puttana miseria se lo sappiamo...

 

Tuttavia, dato che noi non facciamo sconti a nessuno, e lo sapete bene, dobbiamo analizzare la verità e raccontarla così com’è.

 

Protagonista della vicenda il Generale Roberto Vannacci, il milite incursore lanciatosi in politica dopo essere stato passato al tritacarne a causa del suo noto libro “Il Mondo al Contrario”, l'opera libraria auto-edita, divenuta in Italia, un caso editoriale.

 

È un fatto noto che il Generale  sia finito nel mirino mediatico ben prima che il suo nome entrasse ufficialmente nel dibattito politico.

 

Già dal 27 febbraio 2024, quindi in tempi non sospetti, è stato sottoposto a un attacco frontale soprattutto da parte della trasmissione Report.

 

In particolare è stato lo speciale firmato dal giornalista Matteo Pucciarelli ad accendere la miccia: dopo aver “scoperto” il libro del Generale, lo ha etichettato come omofobo, estremista, portatore di un pensiero autoritario e nostalgico.

 

Da lì in poi, lo scontro è diventato aperto e permanente.

 

Ma Vannacci non è mai arretrato.

 

Anzi: ha risposto colpo su colpo, sempre sul piano delle idee, mostrando una preparazione culturale e una solidità argomentativa tali da mettere spesso in difficoltà i suoi interlocutori.

 

E ogni tentativo di demolizione si è trasformato, paradossalmente, in pubblicità gratuita.

 

Il risultato?

 

Più lo colpivano, più lo rafforzavano.

 

Più lo colpiscono, più lo rafforzano.

 

E Report?

 

Questa trasmissione così altisonante e pregna di giornalismo investigativo d’assalto che poi, alla fine, andando in fondo agli argomenti trattati assomiglia più ad un vecchio dirigibile Zeppelin che invece di volare alto va in autocombustione sfilacciandosi per poi precipitare.

 

Ma c’è una figura ben precisa nel giornalismo italiano: non è il cronista, non è l’analista, non è nemmeno l’opinionista.

 

È il prete laico del politicamente corretto, il custode della nuova morale, l’interprete autorizzato del bene e del male.

 

È quello che scrive di “sinistre esotiche” con l’entusiasmo del turista ideologico: che racconta Podemos e Syriza come se fossero romanzi epici, e la politica italiana come una favola manichea in cui ci sono i puri e gli impresentabili.

 

Sempre gli altri.

 

Questo personaggio non critica: scomunica.


Non discute: etichetta.


Non argomenta: marchia a fuoco.

 

Se qualcuno rompe lo schema, se non si inginocchia al vocabolario autorizzato, scatta il riflesso pavloviano: omofobo, estremista, fascista dentro, un pezzetto pure fuori, e soprattutto pericoloso per la democrazia.

 

È il linguaggio automatico di una sinistra che non sa più convincere e allora condanna, che non sa argomentare e allora demonizza.

 

Il problema non è che questo giornalismo abbia delle idee.

Il problema è che non sopporta più idee diverse.

 

Ha sostituito il confronto con il processo, la critica con il sospetto, il dubbio con la sentenza.

 

E quando incontra qualcuno preparato davvero, che risponde punto per punto, che non si fa intimidire, che non si lascia mettere all’angolo… allora impazzisce...e deborda...

 

Perché l’ideologo regge solo finché nessuno gli smonta il teatrino retorico.

 

Questa non è informazione.


È militanza travestita da neutralità.


È propaganda col tesserino.

 

E il paradosso finale è sempre lo stesso: chi si proclama paladino della libertà è il primo a non tollerarla.

 

Si, scrivevamo di Matteo Pucciarelli


Ma potremo farlo su Luca Chianca, il cane da tartufo di Report, cosi come lo descrive il Generale, in giro per l'Italia alla ricerca di notizie scottanti su Vannacci.


Detta così, sembra quasi un fatto personale...

 

Ma il team, la squadra, non è il singolo giornalista investigativo, quanto invece lo è il collettivo.

Perché a capo, sì, c’è Sigfrido Ranucci, ma poi troviamo nomi elitari che collaborano con questa redazione.

 

Questa è una parte del dream-team di Sigfrido.


Bernardo Iovene, giornalista di Report, autore di inchieste che hanno fatto discutere e vincitore del premio Ilaria Alpi.

Stefania Rimini, autrice di inchieste sulla sanità, i paradisi fiscali, i social network e la sicurezza in rete, l’abbiamo sentita parlare di tutto: dalla manovra economica fino al mercato del latte in polvere e alle vaccinazioni obbligatorie, vincitrice del premio “Cultura Civica 2002” e del “Gran Prix Leonardo” 2000.

Sabrina Giannini che ha lavorato come giornalista nel programma televisivo Report sin dal 1997, nel 2008 ha vinto il Premio Mondello per il settore della comunicazione.

Michele Buono che collabora con la Rai dal 1977 come regista e autore e realizza reportages e documentari per gli speciali del Tg1.  

Giovanna Boursier, che si occupa dal 1992 di storia della lotta partigiana in Italia e di persecuzione e sterminio degli zingari durante la Seconda guerra mondiale, collaborando con l’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza, consulente storica per alcuni documentari. 

Paolo Mondani, giornalista storico, autore del servizio che parla di possibili collegamenti tra mafia ed eversione di destra.

Paolo Riccardi in pista dal 1976 nel cinema e poi dal 1977 per la Rai.

E ancora Giorgio Fornoni, giornalista italiano e reporter indipendente dal 1975.

 

Ma non sono tutti, perché la redazione può cambiare velocemente, e molti dei giornalisti e collaboratori che lavorano con Report sono freelance, di certo nessuno, ma proprio nessuno di loro, si è mai spostato, una sola volta nella vita, verso destra.

 

E l’ideologia nella comunicazione, purtroppo, lascia un marchio di fabbrica, indelebile e qui il “bersaglio” non sono le biografie, ma il paradigma editoriale.

 

Ed è proprio qui il nodo: non conta il singolo giornalista.

 

Conta l’ecosistema.

 

Conta l’aria che si respira in redazione.

 

Conta l’orizzonte mentale comune.

 

Quando una redazione è così omogenea dal punto di vista culturale e simbolico, il problema non è se l’ideologia entri nella notizia, ma come e quanto.

 

Perché entra sempre.

 

Anche quando non è dichiarata.

 

Anche quando si finge neutralità.

 

L’ideologia di sinistra - come ogni ideologia - non si presenta in modo rozzo.

 

Non dice “ora facciamo propaganda”.

 

Lavora più in profondità: sceglie chi è una vittima e chi un sospetto,


stabilisce a priori cosa è progresso e cosa regressione, decide quali temi sono “sensibili” e quali sacrificabili, quali parole vanno usate e quali demonizzate.

 

Poi il resto viene da sé: il montaggio, le inquadrature, le scelte linguistiche, le omissioni strategiche, le indignazioni selettive.

 

Non serve inventare.


Basta selezionare.

 

Ed è lì che l’informazione smette di essere racconto dei fatti e diventa racconto del mondo secondo una visione unica, che non ammette deviazioni.

 

Non una censura esplicita, ma una gabbia mentale talmente interiorizzata da non essere nemmeno più percepita come tale.

 

Il risultato?


Non una redazione che indaga il potere in tutte le sue forme, ma che ne combatte solo una parte precisissima, lasciando intatte - o addirittura protette - le altre.

 

Il paradosso più grande è questo: si proclama “indipendenza” mentre si lavora dentro uno schema rigidissimo.

 

Si parla di “pluralismo”, ma lo si pratica solo nella teoria.

 

Si denuncia la propaganda, mentre la si fa con strumenti più raffinati.

 

Questa non è una battaglia tra “buoni e cattivi”.


È una battaglia tra giornalismo e ideologia.

 

E quando l’ideologia prende il controllo della notizia,


la notizia non muore.


Peggio: viene addomesticata.

 

Ma Vannacci no.


E' un cliente difficile da addomesticare.

 

Questa non è una battaglia tra “buoni e cattivi”.


È una battaglia tra giornalismo e ideologia.

 

Quando l’ideologia conquista la notizia, la notizia non scompare.


Peggio: viene addestrata.

 

Ma Vannacci no.


Lui  è difficile da manipolare.

 

Vannacci è una preda che non si lascia mettere al guinzaglio.


E infatti su di lui il meccanismo si inceppa.

 

Report a vederlo bene funziona così: non racconta tutto, racconta ciò che serve.


Non smentisce nel merito, isola una frase.


Non analizza un’idea, estrae una parola.


Non affronta una visione, ritaglia un frammento e lo inchioda in prima serata.

 

È un montaggio “chirurgico”, non un’inchiesta.


Si costruisce una scena, non una verità.


Si prende un discorso, lo si smembra, lo si disidrata,


poi lo si ricompone come un mostro da prima serata.

 

Questo non è giornalismo d’inchiesta.


È narrazione guidata.

 

È scegliere l’inquadratura prima del fatto.


È decidere il colpevole prima delle prove.


È scrivere la morale prima della storia.

 

Funziona con molti.


Funziona con chi arretra, con chi balbetta, con chi cerca giustificazioni.


Ma con Vannacci no.

 

Perché Vannacci non chiede scusa.


Non si inginocchia.


Non riformula per piacere allo studio televisivo.

 

Risponde.


E quando risponde, smonta.

 

E allora il copione salta.


Perché quando l’ideologo incontra uno che argomenta, va in crisi.


Quando il montaggio incontra uno che ragiona, perde potere.


Quando il teatrino incontra uno che non recita, crolla.

 

Vannacci non lo si può ridurre a “titolo”.


Non lo si può incasellare in slogan.


Non lo si può demolire con le forbici di montaggio.

 

E questo, per chi vive di narrazione politica travestita da informazione, è inaccettabile.

 

Perché Report non teme il personaggio debole.


Teme quello strutturato.


Quello che non cade nelle trappole verbali.


Quello che risponde punto per punto.


Quello che non chiede permesso.

 

E allora via la maschera: non è più un’inchiesta.


È una guerra culturale.

 

Ma qui c’è un problema per loro: in guerra, quando trovi uno che non arretra, o lo spezzi…o sei tu a farti male.

 

E Vannacci, non si spezza.

 

Addormiteve col fucile...



a cura di Mino e Fidi@s


image mix repertorio dal web
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È una frase di C.P. Scott, direttore del Guardian per 57 anni, dal 1873 al 1930.

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