La pistola che ha ucciso Mino Pecorelli è nel tribunale di Milano?
- oposservatoriopoli
- 4 giorni fa
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a cura della giornalista di Raffaella Fanelli - fonte mowmag.com

L’arma che potrebbe unire i delitti di Fausto e Iaio e di Mino Pecorelli è a Milano. Qui vi raccontiamo in esclusiva tutto quello che è successo in questi anni, dall’omicidio dei due diciottenni del Leoncavallo (18 marzo 1978) e del giornalista romano (20 marzo 1979), fino alla scoperta di una pistola dimenticata nel deposito del tribunale di Milano, una Beretta calibro 7,65, compatibile con i proiettili usati per le due esecuzioni.
Non solo: i nomi che girano intorno a entrambi i casi sono gli stessi.
Uno su tutti: Massimo Carminati, l’uomo simbolo degli intrecci oscuri tra Banda della Magliana, terrorismo nero e Stato.
Ma allora perché nessuno ha mai comparato quest’arma con i reperti di entrambi i delitti?
Da qualche parte, nei depositi dell’ufficio corpi di reato del tribunale di Milano, c’è una scatola che nessuno apre da anni.
Dentro, avvolta in una busta delle armerie giudiziarie, giace una pistola.
Una Beretta calibro 7,65 con matricola abrasa.
Un’arma che nel tempo ha cambiato mani, città e processi.
Ora è ferma, immobile, eppure il suo silenzio pesa più di qualunque deposizione. Perché quella pistola potrebbe aver sparato due delle raffiche più oscure della storia repubblicana: la prima contro Fausto Tinelli e Lorenzo “Iaio” Iannucci, i due diciottenni del Leoncavallo uccisi a Milano la sera del 18 marzo 1978, e la seconda contro il giornalista Mino Pecorelli, il direttore di OP ucciso a Roma, in via Orazio, la sera del 20 marzo 1979.
L’arma, però, non è solo un reperto: è una pista persa, poi riemersa, e forse mai davvero seguita.

L’inchiesta sull’omicidio di Mino Pecorelli è stata riaperta nel 2019 dopo una serie di articoli che chi scrive ha pubblicato e che i familiari del giornalista hanno portato in procura, a Roma, chiedendo la riapertura delle indagini. Indagini passate di mano, dal pm Erminio Amelio alla pm Alessandra D’Amore e che appaiono ferme e destinate a una facile archiviazione.
Perché, ad oggi, con certezza, sappiamo che nessuno degli ex Nar pentiti è stato sentito dalla procura romana e che mai è stato sentito il neofascista Vincenzo Vinciguerra, detenuto nel carcere di Opera, eppure è grazie alle sue dichiarazioni, rese a una giornalista, che l’inchiesta è stata riaperta. Informazioni importanti tanto che la procura di Bologna ha chiamato Vinciguerra a testimoniare nel processo all’ex Nar Gilberto Cavallini, successivamente condannato all’ergastolo per la strage del 2 agosto 1980. Tenetelo presente questo nome: Gilberto Cavallini, fedelissimo dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar) di Valerio Fioravanti.

La storia è riemersa nel 1995, in un parcheggio di Cologno Monzese dove viene sequestrata un’auto, una Citroën Dyane, con un doppiofondo carico di armi.
Tra queste, una 7,65 compatibile con i proiettili utilizzati dal killer che esplose quattro colpi di pistola contro il giornalista Mino Pecorelli.
A custodirle c’è Domenico Magnetta, figura che gravita tra Avanguardia Nazionale e amicizie pericolose: quella con Massimo Carminati, per esempio, l’uomo che negli anni diventerà il simbolo di un’intersezione perversa tra terrorismo nero, Banda della Magliana e zone grigie dello Stato. In quello stesso anno, nel 1995, si sta processando a Perugia il presunto killer del giornalista, Massimo Carminati, appunto.
È qui che accade il fatto più inspiegabile: nessuno avvisa la procura di Perugia. Se quella pistola fosse stata analizzata nel 1995, la storia avrebbe potuto prendere un’altra direzione. Invece la pistola finisce in un deposito dove resta per anni. E il processo si chiude con l’assoluzione di Carminati.

Ma chi uccise il giornalista non agì da solo.
A sparare fu una sola arma ma accanto al killer, o meglio, in auto ad aspettarlo, c’erano tre uomini.
E la testimonianza di Franco Santini, presente nel fascicolo del caso Pecorelli, conferma l’ipotesi che ad agire fu un commando.
Così come a Milano, in via Mancinelli, un anno prima.
A sparare su Fausto Tinelli e e Lorenzo “Iaio” Iannucci, il 18 marzo 1978, fu un commando di più persone, e le perizie balistiche hanno confermato che a sparare contro i due ragazzi fu una sola arma, utilizzata da uno dei membri del commando.
Anche le indagini sul duplice omicidio di Fausto e Iaio sono state riaperte.
E dallo scorso maggio ci sono gli stessi nomi indagati in passato per il delitto dei due ragazzi, Massimo Carminati (sì, sempre lui, già processato e assolto per l’omicidio Pecorelli), Claudio Bracci e Mario Corsi.
Secondo la ricostruzione degli inquirenti, il gruppo avrebbe agito con modalità tipiche dell’esecuzione politica: arrivo rapido, esplosione dei colpi a distanza ravvicinata e fuga immediata verso un’auto o una moto di appoggio.

Ma torniamo alla nostra pistola, quella dimenticata nell’ufficio reperti del tribunale di Milano.
Questa pistola, secondo alcuni appunti investigativi che abbiamo avuto modo di visionare, sarebbe appartenuta a un uomo dei Nar e potrebbe essere la stessa che fu usata per uccidere il giornalista Mino Pecorelli.
Si tratta di una Beretta modello 81, calibro 7,65, la stessa arma che alcune perizie balistiche attribuiscono al duplice omicidio di Fausto e Iaio.
A pagina 9 della perizia balistica del 6 luglio 1981 sul duplice omicidio dei ragazzi del Leoncavallo si legge “si tratta di proiettili 7,65 esplosi con un’unica pistola semiautomatica, con canna solcata da sei rigature destrorse”.
Una successiva perizia del 5 gennaio 1989 conferma l’uso di una sola arma per l’omicidio dei due ragazzi e le sei rigature destrorse “e non poteva essere una Beretta modello 70 o 34 ma una Beretta 81, arma molto diffusa tra la fine degli anni Settanta”.
Per l’omicidio Pecorelli la prima perizia a firma di Antonio Ugolini e anche la successiva, del 10 giugno 1983, a firma di Luigi Nebbia e di Pierluigi Baima Bollone, unicamente attestano che i quattro proiettili estratti dal corpo di Mino Pecorelli presentano le seguenti caratteristiche: calibro 7.65, tutti esplosi da un’unica arma con sei rigature destrorse.
A pagina 11 della stessa perizia (Luigi Nebbia - Pierluigi Baima Bollone), si legge: “I colpi sono stati esplosi con una pistola Beretta calibro 7.65 modello 81”.
Per i tre delitti, dunque, le pallottole sono sempre 7,65 e l’arma potrebbe essere la stessa.
La mano potrebbe essere diversa.
L’ambiente, no.
Il delitto di via Orazio è stato lungamente attribuito a un intreccio tra potere politico, criminalità organizzata, eversione neofascista.
Un intreccio in cui compaiono i Nuclei armati rivoluzionari di Valerio Fioravanti e un mandante, Licio Gelli, che riporta alla strage di Bologna.

Per l’omicidio di Fausto e Iaio gli indagati arrivano dallo stesso ambiente.
Da qui, la domanda diventa inevitabile: se l’arma è compatibile con quella di via Mancinelli, dove sono stati uccisi Fausto e Iaio, e con l’arma usata in via Orazio, dove è stato ucciso Pecorelli, ed era nelle disponibilità di ambienti neofascisti, perché nessuno l’ha mai comparata scientificamente ai reperti di entrambi i delitti?
Ci sono due inchieste aperte e due procure che dovrebbero lavorare per arrivare alla verità su tre delitti che hanno segnato la storia di questo paese.
La pistola sequestrata all’ex Nar (e il nome non lo scriviamo per evitare di compromettere le indagini) che oggi giace nell’ufficio reperti del tribunale di Milano non è mai stata sottoposta a una comparazione incrociata tra i proiettili dei due agguati.
L’ombra di questa pistola fantasma oggi è più lunga che mai.
Non perché offra una verità pronta, ma perché rivela un’assenza: quella di ciò che non è stato fatto.
Un confronto mai eseguito.
Una perizia mancata.
Una pista abbandonata che la procura di Roma e la procura di Milano hanno il dovere di percorrere, e non solo nei confronti dei familiari di Mino Pecorelli e di Fausto e Iaio, ma dell’interno Paese perché gli italiani onesti hanno il diritto di sapere cosa è davvero successo.
E, forse, quella pistola è ancora in tempo per parlare.









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