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OP Osservatorio Politico

Da New York a Roma...stamo a toccà er fondo...

  • oposservatoriopoli
  • 5 nov
  • Tempo di lettura: 7 min

Il potpourri è una composizione utilizzata per profumare e abbellire gli ambienti, ma quando lo si usa per raccontare più storie vicine alla politica non profuma più, anzi, impuzzolisce tutti.

 

Per il mix di oggi si parte da lontano, da New York.

 

Vi ricordate che vi avevamo avvisati?

 

New York si è trasformata in un laboratorio dell’ideologia più stanca e incoerente del nostro tempo: “il progressismo da salotto”.

 

ll sindaco parla di inclusione, ma intanto la città affonda nel degrado.

Promette sicurezza, ma le strade sono invase da senzatetto, tossicodipendenti e bande giovanili che agiscono impunite.

 

A parole difende i diritti, nei fatti li svende per consensi facili.


L’immigrazione è gestita come uno slogan elettorale, non come un problema reale di ordine pubblico e sostenibilità.

 

Le tasse aumentano, le attività chiudono, la classe media scappa, ma il sindaco sorride ed a breve inaugurerà panchine arcobaleno.

 

Ops, perdonate... arcobbalò!

 

La verità è che New York è diventata un simbolo del collasso del pensiero unico progressista, quello che predica apertura e tolleranza, ma impone censura e conformismo.

 

Chi dissente è bollato come “intollerante”, chi denuncia il disastro urbano è tacciato di odio.

 

Certo, il nuovo sindaco è multietnico, è Dem, è musulmano e quindi piace a chi combatte il neo-nazi-fascismo di Trump e del mondo intero (che palle …).

 

Però, c’è sempre quel però, che frena le feste perché la verità è che New York, la famosa “Grande Mela” marcisce al centro, ci sarà insicurezza, sudiciume culturale e una burocrazia che uccide ogni iniziativa privata.

 

New York non è più un modello.

 

È un avvertimento.


E chi l’amministra, da oggi, più che un visionario sembra il custode del suo declino.

 

Come dite?

 

Siamo razzisti?

 

Ma anche no!


Assolutamente no...

 

Se così fosse avremmo speso più di una una parola negativa per l’operato di Eric Leroy Adams, politico statunitense afroamericano, ex sindaco di New York ed ex poliziotto eletto nel 2021, anch’esso “Dem”, sebbene quest’ultimo il 25 settembre 2024 sia stato rinviato a giudizio da un Grand Jury federale con le accuse di corruzione, frode e raccolta illegale di fondi elettorali da fonti estere in riferimento a presunti regali e viaggi di lusso offerti da funzionari governativi e imprenditori legati alla Turchia

 

Tanto per fare un esempio a tema.

 

Ma tutto il mondo è paese,e se non ricordiamo male, proprio nell’ambito dei “regali” nel 2016 i membri della delegazione del governo italiano durante un viaggio in Arabia Saudita guidato da Matteo Renzi ricevettero dei Rolex in omaggio.

 

Ci furono resoconti di litigi tra i partecipanti per ottenere gli orologi, che erano regali da parte di funzionari sauditi e successivamente sono emerse notizie secondo cui Renzi non avrebbe tenuto per sé nessuno dei regali di valore, tra cui i Rolex, anche se ha restituito solo una statuetta. 

 

Eppure per lui nessun Grand Jury federale, neanche una semplice Procura della Repubblica di provincia …

 

Ma, andiamo avanti.

 

Il punto che poniamo è l’islamizzazione, o meglio, la trasformazione culturale di una grande metropoli occidentale.

 

Questo è un tema politico serio e va trattato con precisione, non con etichette.

 

Infatti, rimanendo lucidi, la questione è che una città globale come New York deve restare laica, neutrale e plurale, non può piegarsi a un’impronta culturale precisa, religiosa o ideologica.

 

Questo perché se la fede diventa strumento politico, è un errore.


Non importa se si parla di islam, cristianesimo o qualunque altra dottrina.


Le città devono proteggere la libertà di tutti, non esprimere la visione di qualcuno.

 

Altrimenti l’intera città diventa un ghetto, e qualche volta un lager …

 

Il rischio vero non è l’islamizzazione in sé ma la perdita di identità culturale e la resa della politica all’ideologia religiosa.

 

Così come, invece, si vuole tentare in Italia, dove si sventola fiera la bandiera multicolore invece si arriva solo al bianco e al nero.

 

Bianchi contro neri.

 

Neri contro bianchi.

 

Attenzione a i termini “bianchi e neri” perché il gioco è pericoloso e può evocare le fazioni guelfe dei "bianchi" e "neri" a Firenze, ed il resto della storia, purtroppo, lo conosciamo.

 

In Italia, disgraziatamente, c’è una parte della sinistra che non rappresenta più i lavoratori, ma solo se stessa.

 

Quella che non parla più di salari, affitti o sicurezza, ma di “linguaggi inclusivi”, “bianchizzazione” e “spazi decolonizzati”.

 

È la sinistra delle etichette, che invece di cambiare la realtà, cambia le parole.

 

In questo scenario si inserisce il modello politico di Antonella Bundu e di chi come lei costruisce consenso non sui problemi concreti, ma sull’ideologia.


Una politica che divide, che misura tutto in termini di identità, di genere, di provenienza, di colore.

 

Mentre la gente comune, quella che si alza alle sei del mattino e che paga le tasse, resta tagliata fuori.

 

La loro ossessione per il “simbolico” ha sostituito la “concretezza”.

 

Cancellano statue, rinominano strade, riscrivono la storia.

 

Ma nel frattempo le periferie restano abbandonate, la sicurezza peggiora, i giovani scappano all’estero.

 

Parlano di “inclusione”, ma non includono nessuno fuori dalla loro cerchia ideologica.

 

Razzisti?

 

Si, razzisti!

 

Quando si sceglie una parte, si finisce spesso per estremizzare: nessuno cede terreno, nessuno cerca compromessi.

 

Ma qui non si tratta di un episodio isolato: provocazione e odio sono diventati costanti del dibattito pubblico.

 

Prendete Marco Travaglio, nel 2020 scrisse che, contro Fratelli d’Italia “era giusto l’intervento dei partigiani con lo schioppo”.

 

È accettabile formulare un invito alla lotta armata in un editoriale?

 

La “battuta” giornalistica, in Italia, è spesso degenerata: troppi si sentono autorizzati a minacciare chi la pensa diversamente.

 

Così riferimenti gravissimi e squallidi - come l’allusione a Piazzale Loreto - vengono utilizzati come simboli aggressivi, persino rivolti al Presidente del Consiglio in carica.

 

È questo il livello del confronto pubblico?

 

È questa la democrazia di cui parliamo?

 

Sarebbe giusto rispondere a tono, magari con frasi vicine al “bosco della Quartarella, a Riano, nei dintorni di Roma”?

 

Se questo è il moderno livello del confronto, beh, noi ci ritiriamo.

 

E mentre qualcuno si diverte a trasformare la politica in show, altrove si consumano le peggiori malattie del Paese, corruzione che si insinua nelle stanze dove si decidono appalti e opere, partiti che barattano programmi per poltrone, magistratura che talvolta appare più interessata a sceneggiare che a fare giustizia e giornali che rincorrono il click anziché il servizio pubblico.

 

Il sistema nel suo complesso mostra crepe profonde, politici che promettono e poi spartiscono.


Sindacati che, troppe volte, difendono interessi di bottega invece di rappresentare i lavoratori.

Grandi media che costruiscono narrazioni parziali a uso e consumo delle tribune ideologiche.

 

Il vero scandalo non è la canzone di novant’anni fa, né lo striscione in curva, ma l’abitudine a considerare le istituzioni come torri d’avorio dove nulla è mai veramente sotto controllo.

 

Le regole vengono piegate, le verifiche ritardate, le verifiche trasformate in alibi.

 

E chi paga il conto, oltre Pantalone, sono le persone normali: chi si alza la mattina per andare a lavorare, chi vuole scuole decenti, ospedali efficienti e una giustizia che sia davvero uguale per tutti.

 

Non chiediamo miracoli.

 

Chiediamo semplicemente coerenza, che la politica smetta di essere teatro e torni a essere servizio.

Che la magistratura agisca con equilibrio e responsabilità e non con protagonismo.

Che i media ritrovino il dovere di informare, e non di infiammare.

Che i sindacati tornino a difendere i diritti veri dei lavoratori e non interessi di parte.

 

È una rivoluzione di buonsenso, non di slogan.

 

La morale?

 

Due verità scomode, la prima, che la retorica non sostituisce la responsabilità, chi governa risponda delle scelte, non delle parole.

 

La seconda, che la democrazia resiste solo se tutti, senza eccezioni, vengono chiamati a rispondere: alla corruzione, all’ipocrisia e all’impunità si risponde con trasparenza, controlli severi e, quando serve, sanzioni reali.

 

Se non si parte da qui, ogni coro diventa vuoto e ogni promessa un altro pretesto di distrazione.

 

Tuttavia, la nostra conclusione batte sul dente che duole.

 

Non è accettabile che, nel 21° secolo, si continui a giustificare con la religione ciò che è invece controllo, violenza e privazione di diritti.

 

Il velo imposto, il burqa calato con la forza, le donne costrette a restare a casa, i matrimoni di bambine, le mutilazioni genitali non sono “tradizioni” sacre, sono solo stronzate, sono solo violenze che cancellano dignità, autonomia e futuro.

 

Noi non ci stiamo...porca troia...proprio no...

 

Chi usa il sacro per mettere catene alla vita delle donne tradisce sia la fede sia l’umanità.

 

Le religioni, come le culture, possono e devono essere luogo di cura, non di prigione.

 

Le interpretazioni che impongono ruoli, che vietano la scuola, che limitano il lavoro o che legittimano punizioni corporali devono essere combattute con chiarezza e fermezza.

 

Ma davvero c’è chi esulta per tutto questo?

 

Maledetta “Basaglia”!

 

Non siamo né permissivisti né moralisti, noi siamo dalla parte della libertà personale.

 

Difendere una donna significa difendere il suo diritto di scegliere come vestirsi, come amare, se studiare o lavorare.

 

Difendere una donna significa offrire rifugio a chi fugge da una famiglia che la minaccia, significa punire chi costringe, significa educare chi vorrebbe imporre un destino.

 

Difendere una donna significa difendere noi stessi.

 

La nostra denuncia è e dev’essere gravissima, il giudizio intransigente, ogni forma di oppressione che si veste di sacro è maledetta nei fatti perché distrugge persone.

 

Ma la lotta non è contro le persone di fede, è contro l’egoismo e l’ego, e contro chi, oggi, strumentalizza la religione per conservare potere e controllare corpi altrui.

 

Che sia New York o Pentedattilo (frazione sperduta della Calabria) il senso non cambia.

 

La nostra posizione è semplice e non negoziabile.

 

Libertà di culto, diritti e libertà delle donne, prima di tutto.

 

E per ottenerli serve coraggio politico, leggi efficaci e una società che non tolleri che il sacro diventi mezzo di violenza.

 

Per questo nel mondo c’è bisogno di rappresentanti che non siano legati a lobby, parrocchie o ideologie ma soltanto al coraggio della verità e alla dignità delle persone.

 

Per questo continueremo a batterci senza sosta, senza tregua, senza paura per poter dire la nostra.


Per poter far si che anche questa voce venga ascoltata realmente.


In una società dove, se tutti parlano, nessuno capisce...



a cura di Mino e Fidi@s



(image web-mix)

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