Pentiti di Stato: quando la giustizia della verità è delegata ai colpevoli...
- oposservatoriopoli
- 8 ago
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C’è qualcosa di profondamente irrisolto nella figura del collaboratore di giustizia. Ex uomini d’onore, oggi testimoni dell’autorità giudiziaria, abitano una zona grigia in cui il pentimento si confonde con l’opportunismo, e la verità diventa una moneta di scambio.
Nella cultura mafiosa, l’affiliato che esce allo scoperto è un traditore. Un infame.È colui che ha “sputato nel piatto in cui ha mangiato”.
La sua rottura con l’organizzazione non è vista come un risveglio etico, ma come un atto di codardia. Chi parla, muore. Ma chi parla e sopravvive, viene protetto dalle istituzioni.
Qui si apre la contraddizione più evidente: chi ha vissuto seguendo le regole dell’omertà, decide di rompere quel silenzio non tanto per un bisogno di espiazione, quanto per una scelta di convenienza. Una strategia, più che una redenzione.
Il diritto, tuttavia, non si interroga sulle intenzioni: valuta i risultati.L’istituto della collaborazione con la giustizia nasce in Italia non con la mafia, ma con il terrorismo: furono i primi “pentiti” delle Brigate Rosse a offrire uno scambio di informazioni in cambio di attenuazioni di pena.Giovanni Falcone ne intuì la portata e contribuì a estendere il modello al contrasto a Cosa Nostra, rendendolo strumento chiave del Maxi Processo.Dal 1991, con la legge n. 82, e poi con la n. 45/2001, il legislatore ha costruito un impianto preciso: il collaboratore ha diritto a sconti di pena e misure di protezione solo se la sua collaborazione è effettiva, utile, tempestiva e attendibile. Le dichiarazioni devono essere coerenti e riscontrabili. In caso di reticenze o menzogne, i benefici vengono revocati.La collaborazione, insomma, non è un diritto incondizionato: si ottiene solo in cambio di verità verificata.
Nel momento in cui un collaboratore mente, il danno è sistemico.
Il caso Vincenzo Scarantino è emblematico: un piccolo delinquente, trasformato improvvisamente in testimone chiave della strage di via D’Amelio. Le sue accuse, false e indotte, furono alla base di condanne ingiuste e di un depistaggio durato anni. Solo dopo, con Gaspare Spatuzza, emerse l’inganno. Ma era troppo tardi: i processi erano già avvelenati.
Diversa ma altrettanto corrosiva, la vicenda di Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito. Ciancimino jr. ha proposto una narrazione inquietante: rapporti tra potere pubblico e Cosa Nostra, contatti sotterranei, documenti segreti. Alcuni spunti erano fondati, altri manipolati. È stato condannato per calunnia aggravata, riciclaggio e detenzione di esplosivo. La sua testimonianza ha portato più nebbia che chiarezza.
E poi c’è il caso Giovanni Brusca, uno dei più discussi.
Regista della strage di Capaci, assassino del piccolo Giuseppe Di Matteo, figura centrale di Cosa Nostra. Ha collaborato, ha fornito informazioni cruciali, ha permesso arresti.
Ha beneficiato delle norme previste per chi decide di parlare.È tornato in libertà nel maggio 2025, suscitando sconcerto e polemiche.La domanda che ha attraversato l’opinione pubblica è brutale: è accettabile che chi ha premuto il pulsante di 500 kg di esplosivo torni a vivere libero, solo perché ha parlato?
Per l’ordinamento, sì. Se la collaborazione è stata piena, utile, costante, il beneficio si applica.
Ma rimane un dubbio amaro: la giustizia ottiene risultati, ma lascia detriti morali.Brusca è stato determinante, ma non sempre lineare.
Più volte le sue dichiarazioni sono apparse parziali.
Le sue parole, pur decisive, hanno richiesto continui riscontri e verifiche da parte dei magistrati.
Ha collaborato.
Ma ha davvero compreso?
E allora, i punti interrogativi divengono ovvi: Quanti di questi uomini hanno acquisito percezione del dolore arrecato?
Hanno guardato in faccia il disastro lasciato dietro di sé?
O, più semplicemente: hanno imparato a dire solo ciò che serve, per ottenere ciò che torna a loro vantaggio?
Il male, in fondo, non ha bisogno di essere mostruoso per esistere.Gli basta essere comodo, funzionale, non pensato.
E forse anche questo spiega perché, davanti ai collaboratori di giustizia, continuiamo a provare diffidenza.
Perché la loro redenzione non si costruisce su un tormento espresso, ma su un’utilità tecnica.
Non su una memoria consapevole, ma su un tornaconto.
Eppure, c’è un punto che nessuna legge può chiudere.
Chi ha distrutto vite, relazioni, intere comunità, non ha solo un debito con i codici penali.
Ne ha anche uno con la propria coscienza.
Uno si paga con la collaborazione.
L’altro - quando esiste - con il raggiungimento di una reale coscienza rispetto a ciò che si è fatto.
Troppo spesso però, “il pentito” è un imputato che, messo alle strette, sceglie di parlare per salvare sé stesso, alleggerire la pena, ottenere protezione, o semplicemente riscrivere la propria storia in cambio di benefici concreti.
E parliamoci chiaro, se si è sull’orlo del baratro la scelta fra morire nell’anonimato in una cella buia oppure finire sui giornali, pagato, protetto e a volte anche libero, beh, è facile!
Non è una novità: il pentitismo ha giocato un ruolo centrale nei maxiprocessi di mafia, nella lotta al terrorismo, nelle inchieste più delicate sulla criminalità organizzata.
Ma nel tempo, questo strumento - nato per necessità - si è trasformato, in molti casi, in una scorciatoia giudiziaria, con il rischio concreto di sostituire le prove con le dichiarazioni.
Ma necessità di chi, esattamente?
Dello Stato che non riesce ad avere informazioni fresche pur avendo a disposizione migliaia di uomini e miliardi di euro attrezzature ultramoderne???
Cioè, mi dite che i pizzini di quattro sciattoni consacrati alla pastorizia battono le reti e i satelliti dei cyber-investigatori?
Milioni di dichiarazioni utili che si disperdono nell’aria e che nessuno sa afferrare?
Proprio quelle dichiarazioni che spesso, arrivano da soggetti con tutto l’interesse a mentire, depistare o esagerare, pur di ottenere protezione, denaro, visibilità.
Molti pentiti diventano "ripetitori" della verità utile: raccontano ciò che serve all’accusa, saltando da un verbale all’altro con ricordi “recuperati” improvvisamente, coincidenze narrative, e contraddizioni che nei processi, troppo spesso, vengono ignorate o minimizzate.
L’indagine perde così il suo rigore scientifico e diventa una trama soggettiva, costruita sulle parole di chi, fino al giorno prima, era complice del crimine.
Anche il rapporto tra pentiti e forze dell’ordine o magistratura non è sempre limpido.
A volte sembra più uno scambio di favori: tu mi dici quello che serve, io ti proteggo, ti curo l’immagine, ti garantisco un futuro.
In altri casi, si tratta di operazioni politiche, dove la testimonianza di un collaboratore diventa utile a costruire un teorema, o a riscrivere verità scomode, in linea con una certa narrazione istituzionale.
Abbiate almeno la compiacenza di rimanere in silenzio, so benissimo che questo argomento pizzica le chiappe di parecchi seduti comodi su poltrone comodissime: ma questo è!
Di certo, non si può e vuole negare che alcuni pentiti abbiano realmente contribuito a fare luce su zone oscure del Paese ma, generalizzare, sarebbe ingenuo.
Il problema è strutturale: la giustizia non può fondarsi su una “fede” nei racconti dei colpevoli, senza supporto di riscontri oggettivi, prove documentali, e un robusto contraddittorio.
Chi guadagna da tutto questo?
I collaboratori stessi, che talvolta ottengono nuove identità, case, stipendi, protezione legale e mediatica.
E chi ha interesse a chiudere certi casi in fretta, o a dare in pasto all’opinione pubblica una verità “processuale” che non sempre coincide con quella storica.
In un sistema dove la parola del reo pesa più della ricerca dei fatti, il rischio è che il processo diventi uno spettacolo e la verità un’opinione.
Qual è la rovina dei processi, forse è l’alibi della giustizia!
Oggi in Italia non serve più dimostrare un reato.
Basta che qualcuno lo racconti.
Benvenuti nel regno dei pentiti: criminali conclamati, assassini, estortori, mafiosi e terroristi che, nel momento in cui sentono la corda stringersi al collo, si reinventano come “testimoni di giustizia”.
Si mettono a parlare ...
E parlano, parlano, parlano …
E la magistratura - troppo spesso - li ascolta come fossero oracoli.
Ma di pentimento in loro non c’è nulla.
I collaboratori di giustizia si pentono solo di essere stati presi!
Nel frattempo, i processi storici si reggono sulle loro parole, sull’aria, un’aria che pesa perché detta da un delinquente.
Pesa di più l’aria del delinquente che quella di un poliziotto o di un carabiniere!
Pesa anche quando le testimonianze sono contraddittorie, vaghe o peggio, smentite dai fatti.
Anche quando sono frutto di strategie difensive, vendette personali o costruzioni pilotate.
È il trionfo del sospetto sul fatto, della narrazione sul riscontro.
La verità giudiziaria diventa una fiction e il pentito ne è il protagonista: recita per salvarsi, accusa per ottenere, accusa chi gli conviene e chi conviene …ad altri!
C’è di peggio: lo Stato ci costruisce sopra teoremi, dossier, sentenze.
E così i processi non cercano più la verità, ma la conferma di una storia già scritta, in cui il pentito è solo un tassello utile.
Fino al prossimo colpo di scena.
È una giustizia al contrario, dove il colpevole sale in cattedra e l’imputato, se non ha amici tra i collaboratori, è già condannato.
PAZZESCO!
Perché succede?
Perché conviene a tutti.
Ai pentiti che ottengono benefici.
A chi indaga, che chiude in fretta.
A chi governa certe verità.
E a chi ha bisogno di un capro espiatorio.
Il risultato?
Una giustizia debole, manipolabile, e profondamente ingiusta.
È ora di dirlo con chiarezza: i processi devono basarsi su prove, non su convenienze.
I pentiti non possono essere i padroni della verità.
Perché la verità, quella vera, non si compra con un programma di protezione.
NO, non giustizia, ma strategia.
Dietro ogni pentito c’è una strategia.
Dietro ogni verbale “particolare”, oltre agli “omissis” c’è una negoziazione.
E dietro ogni sentenza fondata su testimonianze “a tesi”, c’è il rischio di un’istruttoria piegata a fini politici, giudiziari o mediatici.
Non è giustizia, è sceneggiatura!
Buona visione.
a cura di Mara Cozzoli e "Mino"
(image, la gabbia dei pentiti al maxiprocesso di Palermo del 1986, dal web)










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